Vita contadina negli anni ’50

Carrone, negli anni ’50, era un paese prevalentemente di tradizione agricola.

In quegli anni i mezzi ed i sistemi di coltivazione ed allevamento erano ancora quelli tramandati dai nostri nonni e bisnonni: lavori manuali aiutati solo dalle mucche e da qualche cavallo, non c’era nessun inquinamento, le acque della “Rusa” si potevano ancora bere, l’acqua potabile non esisteva e c’erano numerosi pozzi che servivano gruppi di case.

Giogo doppio, particolare da cui si nota la data incisa: 1939

Giogo singolo

Giogo doppio

 

Il pozzo era costruito ancora con i mattoni e al fondo, nell’acqua, erano infissi paletti di legno di ontano detto “verna” che non marcisce dentro l’acqua. Attualmente i vecchi pozzi sono tutti chiusi e il fondo è interrato perché ogni tanto doveva essere fatta la manutenzione togliendo la sabbia, portata dall’acqua, che si accumulava sul fondo.

Le donne andavano a lavare i panni nella “Rusa”: d’inverno rompevano il ghiaccio e d’estate quando il ruscello era secco andavano con il carrettino al “Mulin d’Rivoc” per la gioia di noi bambini che potevano giocare intorno al mulino azionato dalla grande ruota ad acqua proveniente, attraverso un canale, dal ruscello della “Rusa da Val” che è un emissario del lago di Candia verso le Cascine, quindi l’acqua non mancava mai neanche d’estate.

Il mugnaio era il Lera che viveva con la sua famiglia nel mulino e che con il suo “cartun” trainato dal cavallo, faceva il giro per Carrone a prendere i sacchi di grano o granoturco da macinare e a riportare i sacchi di farina macinata.

Il pane si faceva con un forno a legna, ancora esistente anche se malridotto, situato davanti alla chiesa dove le donne portavano a cuocere talvolta, nella stagione fredda, le pignatte di terracotta con i fagioli e le cotiche. In seguito è entrato in funzione il forno del commestibile a fianco della chiesa.

La coltivazione dei campi seguiva il metodo della rotazione delle colture: grano, granoturco poi riposo per azotare il terreno con trifoglio, erba medica o ravizzone o semplicemente lasciato a prato.

L’unico concime disponibile era il letame sparso direttamente nei campi o fatto maturare con il “tarò”: un mucchio lungo circa 4-5 metri a sezione triangolare, formato da uno strato di letame e uno di terra, fatto in autunno e sparso in primavera.

Dopo la concimazione seguiva l’aratura con l’aratro ad un vomere trainato dalle mucche e tenuto diritto a forza di braccia oppure con l’aratro a due vomeri (“vultin” ) più comodo perché a fine campo si poteva voltare per ritornare nello stesso solco e reso più stabile per mezzo di due ruote.

 
Aratro ad un vomere (a sinistra) e a due detto “vultin” (destra)

Dopo l’aratura si livellava e si sminuzzava il terreno passando e ripassando con l’erpice.

La semina del grano in autunno e del granoturco in primavera veniva eseguita con due diverse macchine trainate dalle mucche o dal cavallo.

Mio nonno mi raccontava che ai suoi tempi il grano era seminato manualmente a spaglio nei filari a solchi come il granoturco ma poi sono passati al terreno piano avendo capito che dentro ai solchi non si produceva molto grano.

 La semina del grano (a sinistra) e la mietitura (a destra)

La mietitura si eseguiva con la falce a mano (la “miola” ), uno dietro l’altro sotto il sole infuocato di fine giugno.

Noi bambini eravamo messi in coda con una falce più piccola e una fila più stretta, ma che fatica col il caldo, i tafani e le punture, dovute agli steli recisi, sotto i teneri piedi, protetti solo dalle zoccolette, Seguiva la legatura dei covoni di grano con dei legacci di biada ritorta (i ” lighem” ), ammorbiditi con l’acqua e ripiegati in due che formavano una curiosa treccia, che per la legatura veniva riallungata; i covoni venivano poi caricati sui carri e stipati nei fienili.

In seguito sono comparse le prime macchine per mietere e legare il grano (la mieti-lega) e infine le attuali trebbiatrici.

 La falce a mano (“miola”) e la mieti-lega

La trebbiatura del grano era un grande avvenimento per tutto il paese perché richiedeva molte persone e tutti si aiutavano a vicenda.

La macchina per trebbiare il grano veniva da Vische, era molto voluminosa ed era azionata da un motore o da un grosso trattore con una puleggia su cui era montata una lunga cinghia di trasmissione collegata alla trebbiatrice. Era composta da due elementi: uno era molto alto e lungo con molte pulegge a cinghia e con un’apertura superiore in cui si infilava il covone dopo aver tagliato il legaccio e da cui uscivano posteriormente i chicchi di grano e anteriormente la paglia, l’altro elemento raccoglieva la paglia che veniva pressata da una testa con movimento alternativo per formare le balle (i “balot” ) lunghe circa 2 metri e legate con il filo di ferro.

Occorrevano almeno due persone sul fienile, una a infilare i covoni, due a mettere il grano nei sacchi e trasportarli nel deposito, una a raccogliere la paglia che traboccava, una a infilare i ferri per legare le balle e due per riporle circa una decina di persone.

 La trebbiatura del grano negli anni ’30 (a sinistra) e negli anni ’50 (a destra)

All’inizio del 1900 invece il grano veniva battuto nelle aie con due bastoni di legno lunghi circa un metro, legati insieme da una striscia di cuoio (il “tascun” ): con due mani si teneva un bastone facendo roteare l’altro per colpire con forza le spighe di grano.

Lo stesso attrezzo veniva usato anche per battere la bianda senza rovinare la paglia per fare i “lighem” e per battere i fagioli, che erano piantati tra i filari di granoturco per usarlo come sostegno. Dopo la battitura i fagioli erano ripuliti facendoli letteralmente “volare” con una cesta di salice a due manici di forma ellittica, larga circa un metro, che aveva il bordo solo nella parte posteriore.

Il granoturco richiedeva molto più lavoro rispetto al grano che fino alla mietitura non c’erano altri lavori da fare. Quando le piantine di granoturco erano alte circa cinque centimetri si passava un attrezzo fornito di due dischi inclinati per ammucchiare la terra nei solchi in mezzo alle file allo scopo di togliere l’erba cattiva che era nata nel frattempo. Successivamente si eliminava anche l’erba cresciuta vicino al granoturco usando manualmente la zappa con abilità per non tagliare anche le piantine.

Quando il granoturco raggiungeva i 60-70 cm veniva usato un attrezzo con due piccoli vomeri per rivoltare la terra vicino alle piante per poi venire sistemata e rifinita con la zappa.

Il granoturco veniva raccolto a mano dentro grossi cesti fatti di rami di salice intrecciati (i “cavagn” ). Una volta a casa le pannocchie venivano sfogliate, alla sera, da tutta la famiglia.

Le maggior parte delle pannocchie rimanevano con le foglie attaccate ed erano poi legate a mazzi con un rametto di salice ed appesi a cavallo di bastoni, una fila sotto l’altra a formare una caratteristica parete gialla nei fienili o sopra le balconate di legno, opportunamente puntellate, per consentire un buon essiccamento. Una piccola parte delle pannocchie veniva anche messa a seccare sul marciapiedino in mattoni davanti a casa.

 Il mais messo a seccare appeso alle balconate e a terra sul marciapiede della casa

Una macchina apposita eseguiva la trebbiatura del granoturco, era azionata a mano da una manovella e successivamente fu utilizzata una macchina più grande a motore. I tutoli erano poi utilizzati d’inverno come combustibile per le stufe.

 Una sgranatrice a manovella che sgranava le pannocchie e separava i tutoli (i modelli più vecchi non li separavano)

Le piante di granoturco secche erano tagliate e legate a mazzi per poi venire raggruppate e impilate in verticale, nei campi, così da formare una specie di capanna indiana che si prestava ai giochi dei bambini che si infilavano dentro. Una volta seccate le piante venivano triturate con una fresa a motore per fare il giaciglio alle mucche.

 La cavagna per la raccolta a mano del granoturco (a sinistra) e una macchina mietitrebbia di ultima generazione che separa chicchi di mais e tutoli (a destra)

Anche il taglio del fieno veniva eseguito a mano con una grossa falce munita del manico di legno, successivamente si utilizzava la falciatrice trainata dalle mucche. La falce a mano doveva essere molata ogni tanto con la “cota” (mola), una pietra apposita che era riposta in una custodia di legno (“cuer” ) che conteneva un po’ di acqua, ed era appesa alla cintura del contadino.

A sera la falce veniva martellata, per assottigliarne il filo, su di uno speciale ferro piantato per terra se si era nei campi oppure su un ceppo di legno a casa.

Il taglio principale avveniva a fine maggio ma poteva seguire un secondo e terzo taglio se la stagione era propizia con abbondanti piogge. Il fieno era messo a essiccare nei prati stessi spargendolo, al mattino, su tutto il campo. Dopo pranzo veniva rivoltato con un bastone ed a sera era ammucchiato in mucchi dette “tapele” per poi riprendere il ciclo nei giorni successivi fino ad essiccamento completo. Il dramma era quando pioveva e faceva temporale perché poteva essere vanificata la fatica di giorni.

 La fienagione negli anni ’50 ; la falce e il “cuer”

L’allevamento, oltre agli animali da cortile: galline, anatre, oche, tacchini e conigli, era principalmente di bovini da latte, maiali e qualche capra.

Il maiale veniva macellato d’inverno da tutta la famiglia ed alla sera si faceva la cena del maiale tutti insieme consumando i salami freschi di patate o maiale misto bovino, le ossa bollite, le cotiche, il minestrone con la trippa (la “buseca” ), la testa rasata e lo zampone. I salami venivano appesi in una stanza a stagionare e dopo venivano messi sotto il grasso del maiale fuso dentro un grosso recipiente di terracotta (“Salam d’la duja” ).

 Attrezzi per fare i salami e tritacarne

Quasi tutti i campi avevano il suo albero di noci e parecchi gelsi, poiché ad inizio secolo si allevava anche il baco da seta.

D’inverno si tagliavano i pioppi regolarmente a mano con una lunga lama (lo “strabiuc o strunpun” ) manovrata da due uomini.

Armando Vassia