I venditori ambulanti

In passato la figura del venditore ambulante era molto frequente nelle campagne perchè certe merci o servizi non si trovavano nei pochi negozi esistenti in paese o nei paesi vicini e gli spostamenti erano limitati, in quanto nessuno possedeva l’automobile e pochi la bicicletta. C’erano diverse figure di commercianti e artigiani che giravano in maniera più o meno regolare i vari paesini, offrendo i loro servizi e la loro merce.

Dai racconti di mio padre e dei miei nonni posso collocare nel periodo tra le due guerre un venditore di articoli di merceria, chiamato “Giuanin d’la frisa” (Giovannino della fettuccia), che tirava un carretto a mano pieno di mercanzia e per attirare l’attenzione gridava: “Frisa, boton d’la camisa” (fettuccia, bottoni da camicia).

Poi, credo fino agli anni ’50, c’era “Tisu”, il venditore di tinche e carpe pescate nel vicino lago di Candia, che passava in bicicletta con una cesta piena di pesci.

Un altro personaggio che passava in paese ancora nei primi anni ’60 era la “pulaiera” da Mercenasco, che arrivava in bicicletta con una cesta e comprava galline, uova, conigli, passerotti ed anche pelli di coniglio e di talpa.

Oltre a quelli dei miei familiari ho anche ricordi personali di alcuni venditori ambulanti.

Sino alla fine degli anni ’70, c’era un venditore che si chiamava Felice (“Felicin dal popul”), originario di Vische, che passava una volta alla settimana suonando una trombetta, con il suo carretto carico di pentole, stoviglie, vasellame, a volte anche scompagnato, sempre a buon prezzo. La sua particolarità era che il carretto era tirato da un mulo, cosa che piaceva a tutti i bambini del paese (e naturalmente anche a me che d’estate passavo le vacanze a Carrone insieme ai nonni, che tornavano nella casa d’origine). L’arrivo di Felice non era solo l’occasione per comprare stoviglie per la casa, ma anche un momento di aggregazione importante, quasi una festa: le donne si accalcavano intorno al carretto, sceglievano la merce, chiacchieravano tra loro e ascoltavano le storie raccontate da Felice.

In quegli anni c’erano anche altri ambulanti che ricordo, alcuni ancora nei primi anni ’90: il banco di telerie e confezioni da Settimo Rottaro al venerdì, quello del ferramenta e degli attrezzi da lavoro al giovedì, o ancora il banchetto di confezioni e filati di Giugno e Nina, che a differenza degli altri non si fermava nella piazza grande ma nella piazzetta oltre la chiesa, e infine il verduriere “Giuan d’la Ghita” che annunciava anche lui il suo arrivo con una trombetta. L’unico ancora attivo è il venditore di acque e vini, che passa in paese una volta alla settimana.

C’era anche un venditore-imbonitore di tele e tessuti che si chiamava Carletto e si annunciava con un altoparlante: “E’ arrivato Carletto da Biella”. Passava solo un paio di volte all’anno, offriva stoffe a prezzi veramente bassi e faceva delle vere e proprie vendite all’incanto.

Mi ricordo poi anche diverse figure di artigiani che fino agli anni ’70 passavano in paese senza cadenza regolare: l’ombrellaio, l’arrotino, l’impagliatore di sedie, il ramaio che stagnava le pentole, e da Foglizzo il venditore di scope (“ramasau”) al quale era legata la diceria che dopo ogni suo passaggio si verificassero furti di galline.

Una figura particolare e pittoresca era Noto di Pratoferro, cacciatore di talpe (“tarpunè”) che offriva il suo servizio ai contadini che volevano liberarsi dall’infestazione di questi animali: girava su una bicicletta con il sellino foderato di pelle di volpe, ed indossava un cappello con una piuma di fagiano. Un tempo inchiodava le pelli delle talpe uccise su un asse di legno e le andava a vendere, ma negli anni più recenti (una volta scomparso il mercato delle pelli di talpa) le lasciava appese agli alberi come prova dell’avvenuto lavoro.

Trappole per talpe utilizzate dai “tarpunè”

Claudio Actis Alesina mi ha raccontato che fino alla metà degli anni ’60, in autunno e inverno, veniva da Vische il “bisulat” Bernardo, cioè l’artigiano che faceva i “bisui”, tipici zoccoli di legno di salice (“salus”) che si indossavano dopo averli rivestiti internamente con un po’ di paglia per tenere caldi i piedi. Bernardo arrivava ogni domenica mattina con un “biroc” tirato dal cavallo e scaricava la sua merce davanti alla chiesa, aiutato dai figli Noto e Paola. Paola era specializzata a ferrare i “bisui”, per evitare che si rompessero quando si dava inavvertitamente un calcio a qualche pietra: con un seghetto a mano scavava una piccola scanalatura in corrispondenza del collo del piede, poi faceva passare un filo di ferro dentro la scanalatura e lo fermava con due chiodini. Quando Bernardo è morto, i figli sono ancora venuti per un anno o due, poi hanno smesso, anche perché non c’era più nessuno che metteva quelle calzature.

Maria Carolina Grassino con la colaborazione di Claudio Actis Alesina