I pozzi e i fossi di Carrone

A Carrone, fino alla fine degli anni ’60, l’acqua disponibile in paese era quella della roggia (utilizzata per lavare i panni e per irrigare) e quella di numerosi pozzi artesiani presenti in paese.

L’acqua dei pozzi serviva per uso alimentare (sia per bere che per cucinare), per lavarsi, per gli animali domestici o di allevamento, per le pulizie di casa e per irrigare gli orti.

Anche i pozzi hanno una loro storia: fino all’inizio degli anni ’50 erano poco meno di venti, costruiti in mattoni, molto probabilmente prima del 1900. Questi pozzi avevano forma di “casetta”: alcuni avevano delle porte per impedire l’accesso ai bambini, altri erano riparati dalla pioggia da una tettoia in mattoni con sopra un piccolo tetto. Avevano tutti una misura standard, di circa cm.90 di diametro, ad eccezione di uno (n.17 della mappa), che era più grande. Molti di questi pozzi avevano il “turn” (un cilindro in legno montato orizzontalmente su dei supporti che facevano parte della struttura) che serviva a coprire il pozzo; il “turn” aveva due pioli in legno sui due lati che lo attraversavano diametralmente e che servivano per fare girare il rullo sul quale si arrotolava la catena con in cima la “sia” (secchio in ferro) o la “subrtta” (secchio in legno) che scendeva a raccogliere l’acqua sul fondo del pozzo. Alcuni pozzi avevano solo la “girela” sulla quale passava una corda che serviva per far scendere il secchio. Chi andava ad attingere l’acqua al pozzo per uso domestico la portava a casa in un secchio che veniva appoggiato su un tavolino in cucina. Da qui l’acqua veniva attinta con un apposito mestolo chiamato “casa”.

I pozzi necessitavano di regolare manutenzione: bisognava compiere una operazione chiamata “arpusar”, cioè togliere la sabbia che si depositava sul fondo, e questo lavoro veniva fatto da persone che si calavano appositamente nel pozzo, i “pusater” . La sabbia fine e melmosa che veniva tirata fuori veniva chiamata “nita”.

Tutti questi pozzi erano in comunione, cioè servivano più famiglie, in un’epoca in cui quasi tutti i cortili erano aperti e comunicanti tra loro. I pozzi venivano indicati con un nome che derivava dai soprannomi (“stranom” ) o personali o familiari di chi lo utilizzava Uno dei pozzi che molti ricordano, detto di “Ciachinat” (n.5 della mappa), si trovava nel “caral” all’inizio di via Fra Giacomo Costanza. Per “caral” si intende lo slargo di una via (o al suo inizio o lateralmente) sul quale si affacciano dei portoni o cancelli carrabili per accedere al cortile di una abitazione. Questo pozzo aveva una copertura in mattoni a forma di casetta, con porticine in legno e secchio per attingere l’acqua.

Mappa dei pozzi originari costruiti in mattoni, denominati con cognomi o soprannomi (“stranom”) di persone o famiglie nella cui proprietà si trovava il pozzo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Verso la metà degli anni ’50 vennero poi costruiti altri pozzi, quasi uno per ogni abitazione (tenendo conto che in quegli anni molti cortili erano ancora in comunione tra più famiglie). In questo periodo le corde e i secchi vennero sostituiti da pompe manuali in ghisa, in alcuni casi poi sostituite da motorini elettrici.

Quando vennero installate le pompe a mano nei pozzi l’operazione di “arpusar “ si dovette fare più di frequente, perchè prima, quando si “calava la sia” (secchio), l’acqua veniva smossa e di conseguenza veniva smossa anche la sabbia del fondo, mentre con la pompa l’acqua rimaneva quasi immobile essendo risucchiata dalla valvola che, con l’andar del tempo, veniva coperta di sabbia, tanto che si doveva provvedere a toglierla altrimenti l’acqua non arrivava.

I pozzi di più recente fattura o ristrutturazione si possono distinguere dagli altri perchè invece di essere in mattoni sono stati realizzati con tubi di cemento. Nel 1962 fu costruita la fognatura che permetteva di scaricare l’acqua senza doverla raccogliere e allora si iniziarono ad installare le pompe elettriche nei pozzi in modo da pompare l’acqua in una vasca posizionata nel punto più alto della casa (questa vasca era dotata di un galleggiante che comandava la pompa così che quando la vasca era piena, la pompa si spegneva da sola). L’acqua veniva distribuita in tutta la casa per mezzo di un tubo che partiva dal fondo della vasca ed è stato così possibile installare anche water, docce e lavatrici

Quando nel 1967 arrivò l’acquedotto, le vasche per l’acqua vennero abolite e si fecero i collegamenti con la rete idrica. E così i pozzi vennero progressivamente abbandonati per uso alimentare e utilizzati solo più per irrigare. Oggi solo pochi pozzi esistono ancora e tra questi pochissimi sono ancora funzionanti.

Durante la seconda guerra mondiale, in particolare durante la ritirata dei tedeschi, sono stati buttati nei pozzi munizioni e armi di vario genere, tanto che finita la guerra il “pusater” di quegli anni (Giovanni Robino “Giuanin dal Santo” (1902-1951) ha dovuto ripulirli uno ad uno.

Il pozzo “Basot” , oggi non più funzionante, dopo che all’inizio degli anni ’60 è stato posizionato il tubo in cemento con il coperchio ed è stata spostata e sostituita la pompa a mano..

 

Il pozzo “Basot” all’inizio degli anni ’50 (si vede la pietra circolare che copre il pozzo e la pompa a mano per tirare l’acqua)

 

 

 

 

 

 

 

In paese, prima dell’asfaltatura delle strade, c’erano diversi fossi per la raccolta delle acque piovane, poi gradualmente intubati a partire dalla metà degli anni ’50.

In particolare c’era il “Fusal ad Rubin” (chiamato così perchè passava nel cortile di “Toni ad Rubin”, Antonio Robino, (1919-2002), chiamato anche l'”Isonzo” (questo nome fu probabilmente dato dopo la prima guerra mondiale, quando il fiume Isonzo spesso ricordato nei racconti di guerra dei di molti carronesi che vi avevano partecipato). Si trattava di un grosso fosso che partiva dall’incrocio tra l’attuale via Strambino e via Garibaldi e andava fino alla Roggia, passando dietro alle ultime case di Carrone verso Mercenasco, costeggiato sul lato più esterno da grandi cespugli di nocciole (“cafes”). Questo fosso è stato intubato quando è stata costruita la variante che entra in paese provenendo da Strambino in alternativa a via Garibaldi. Lungo i due lati di questa nuova strada, costruita nel 1953 e denominata via Strambino, sono stati realizzati i fossi a cielo aperto, che però sono stati intubati nel tratto in cui entra in paese, a partire da via Fra giacomo Costanza fino a piazza Filippo Crosio, quando la strada è stata allargata a metà anni ’60.

Il tratto di via Strambino (a partire da piazza Filippo Crosio) nell’estate 1961 in cui si vede il fosso a lato della strada non ancora asfaltata”

 

C’era poi una altro fosso che attraversava il paese da nord a sud come il “Fusal ad Rubin; questo fosso partiva dall’orto dell’ultima casa d’epoca di via XI Febbraio, passava negli orti delle famiglie Vassia (“Sgnurin”), fiancheggiava la “travà'” del “Palas”, e proseguiva fino a gettarsi nella “Rusa”.Oggi anche questo fosso non c’è più ed è stato probabilmente intubato a seguito delle modifiche alle case e ai cortili nel corso degli anni.

Anche nei campi attorno al paese c’erano molti fossi ai lati delle strade, ma negli anni sono in gran parte spariti, anche a seguito della insufficiente manutenzione Una volta questi fossi venivano curati regolarmente con le “roide”: tutti gli anni a febbraio i contadini si riunivano alla domenica mattina e insieme li ripulivano. Oggi capita invece che quando piove in abbondanza l’acqua spesso non sa più dove deve andare e può disperdersi nei campi o allagare le strade.

Claudio Actis Alesina e Maria Carolina Grassino