La medicina popolare a Carrone

Con il termine medicina popolare si intendono tutte quelle pratiche che venivano messe in atto per “curare” disturbi e malanni o piccoli incidenti quotidiani.
La medicina popolare ha origini antiche e le sue conoscenze sono state tramandate di generazione in generazione, fino ancora agli anni ’60. Era diffusa in tutte le società contadine, soprattutto nelle piccole località, dove difficilmente era presente un medico (che doveva arrivare da centri più grandi, quindi veniva interpellato in caso di problemi seri e gravi) e le medicine disponibili erano poche e spesso avevano costi elevati.

I rimedi della medicina popolare consistevano soprattutto in medicamenti o decotti a base di erbe (come ad esempio malva, salvia e camomilla) o di alimenti presenti in cucina (aglio, limone, olio, sale, zucchero, vino, cipolla, latte, patata grattugiata, albume d’uovo, tabacco), ma anche di materiali vari (come ad esempio la “carta da zucchero”). Un tempo veniva attribuito anche un grande potere medicamentoso all’urina, tanto che ad esempio a Strambino si usava dire “Al pis ogni mal a guaris”.

A Carrone si ricorda che per curare “porri” e verruche si utilizzava il liquido lattiginoso e giallognolo contenuto negli steli della celidonia (Chelidonium Majus, famiglia Papaveraceae), una pianta perenne a fiori gialli, molto comune in campagna; oppure allo stesso scopo venivano usate foglie di pesco. Altri ricordano che per i lividi dovuti a contusioni si usavano impacchi di “carta da zucchero” unta di burro. Venivano anche attaccate le sanguisughe per togliere il sangue.

 

La pianta di celidonia e particolare dello stelo contenente il liquido giallognolo utilizzato per la cura dei “porri”

Pietro Vassia (1887-1973) raccontava al nipote che la nonna gli curava il mal di denti facendogli masticare tabacco, abitudine che poi ha mantenuto.
Di chi masticava tabacco si diceva che “cicava”: un tempo molti uomini fumavano il sigaro toscano (la “sigala”) e alla fine si usava masticare l’ultimo pezzo del sigaro, la “cica”, da cui deriva il verbo.

Per il raffreddore o per mal di denti si poteva ricorrere al “papin” caldo (un impacco di semola contenuta in un sacchettino di tela, appositamente riscaldato nel forno) oppure alla farina di mais, alla camomilla o ai semi di lino. Vasco Acotto (nel suo libro “Carrone piccolo e antico paese”) ricorda che a Carrone per curare malanni di vario tipo si usavano la malva, la ruta, l’edera, il vino zuccherato, la cipolla bollita nel latte, la patata grattugiata, l’orzo bollito, il tabacco da masticare e l’albume d’uovo.

Facevano parte della medicina popolare anche le “segnature”, quelle pratiche utilizzate per “curare” i nervi (slogature o “storte” con nervi accavallati) o i vermi (gli ossiuri, piccoli parassiti intestinali), soprattutto nei bambini. Le segnature, conosciute e tramandate oralmente all’interno della popolazione femminile, si basavano su aspetti di magia simpatica di evocazione: non sempre era necessaria la presenza fisica del “malato”, ma si poteva agire “a distanza”, conoscendo anche solo il nome e la data di nascita della persona da curare, o avendo a disposizione un suo indumento.
Le donne le praticavano utilizzando gesti e materiali simbolici (come ad esempio fili di canapa per rappresentare i vermi), che avevano anche una componente mistico-religiosa (presenza di preghiere o segni della croce) che però non era in contraddizione con la religione stessa, ma quasi si sovrapponeva ad essa. Chi “segnava” i vermi o i nervi non chiedeva alcun compenso, anzi svolgeva un servizio gratuito per la comunità. La conoscenza di queste pratiche era gelosamente custodita, veniva tramandata solo a donne (in genere della stretta cerchia familiare) ritenute idonee secondo il proprio giudizio, e le pratiche non venivano svolte in presenza di terzi (ad esclusione a volte dei bambini).

A Carrone, da quanto raccontato e tramandato, la prima persona ad introdurre queste pratiche di “segnatura” fu “Pinota ad Ciains” (Giuseppa Grassino, 1882-1961, sposata con Vincenzo Crosio “Giacat”) che da giovane era emigrata con il marito in Argentina, dove si diceva che avesse imparato queste pratiche. Da quanto si ricorda, “Pinota ad Cians” aveva imparato a segnare i vermi, i nervi e il fuoco.
Per quanto riguarda il fuoco non si sa esattamente se si riferisse alle scottature (o piuttosto, come si intendeva in Italia del sud, alla cura del fuoco di Sant’Antonio) ma soltanto che Pinota non lo voleva praticare perché diceva che per farlo bisognava “chiamare il diavolo”.
Come da tradizione, Pinota tramandò queste sue conoscenze (tranne appunto la segnatura del fuoco) ad alcune compaesane: insegnò le segnature ad Angela Costanza (1900-1964) mamma di Francesco e Domenico “Barac” insegnò a “segnare i vermi” a Maria Grassino, sposata Grassino (“Basot”), 1892-1977), a Maddalena Grassino sposata Grassino (“Madlaina dal Caglier”, 1896-1991). Tutte e tre continuarono per tutta la vita a praticare le segnature, ma non tramandarono a nessuno. Maria Grassino diceva che le avrebbe insegnate a sua nuora, ma poi non lo fece. L.C., quando era bambina, all’inizio degli anni ’50, si ricorda che sua prozia Pinota le permetteva di assistere alla segnatura dei vermi: quando a Carrone un bambino aveva mal di pancia, dicevano “anduma da Pinota” e Pinota prendeva una scodella piena d’acqua e una matassa di filo di cotone spesso (aveva una matassa che usava appositamente per questo scopo). Poi tagliava un certo numero di fili, tutti più o meno lunghi uguali, con il dito segnava una croce sull’acqua, poi metteva nell’acqua un filo e diceva sotto voce delle frasi che sembravano preghiere, poi metteva un altro filo e di nuovo diceva delle frasi. Quando aveva messo tutti i fili, con il dito li muoveva e questi giravano e giravano. Anche C.A.A. ricorda che quando era bambino aveva accompagnato sua mamma da Pinota per far segnare i vermi alla sorella. Pinota gli aveva permesso di assistere alla segnatura perché essendo bambino era un “nusaint” (innocente).
La procedura che ricorda era la stessa descritta da L.C. e ricorda che le parole dette erano quasi tutte incomprensibili, forse in latino o in spagnolo. M.C.G. ricorda invece di quando sua nonna Maria Grassino (1892-1977) alla fine degli anni ’60 segnava i vermi, anche se non abitava più a Carrone ma, a partire dal 1931, a Torino. Maria si ritirava in camera sua dopo aver preso in cucina una scodella di porcellana piena d’acqua e un grosso rocchetto di filo di cotone (o forse canapa). Dalla porta chiusa si sentivano recitare formule in latino, (probabilmente preghiere) e poi Maria ricompariva in cucina con la scodella piena di fili, messi in modo che per almeno un terzo della loro lunghezza pendessero dai bordi della scodella a raggiera. Se i fili si erano attorcigliati voleva dire che la persona aveva i vermi.

Tra le carte di famiglia è stato trovato un foglietto scritto a mano da Maria, piegato in quattro e custodito in un piccolo portamonete nero, che era sicuramente un promemoria per segnare i vermi e che recita: “per i vermi fili 5, 3 volte segno della croce sulla scodella Madonna Addolorata e S. Libera [?] poi col filo ….[?] prego Dio che ti liberi dalle boie 3 Salve”

Il foglietto scritto a mano da Maria Grassino con le istruzioni per “segnare” i vermi”


Maria Carolina Grassino, con la collaborazione di
Claudio Actis Alesina, Maria Teresa Cignetti, Laura Crosio